Sordel

Sordello, il più famoso dei trovatori italiani


Siamo all’inizio del XIII secolo in Lombardia, terra che in quei secoli aveva un’estensione che copriva gran parte del nord Italia. I signori locali, come i numerosi mercanti del tempo, erano più interessati a far soldi con il commercio e con l’arte piuttosto che con la guerra.
In quei secoli il termine“Lombartz” era sinonimo di mercanti e banchieri spietati, oltre che gente imbelle; grande comunicatrice, quello sì, ma secondo l’opinione del tempo incapace nel mestiere delle armi. Esiste addirittura una breve commedia chiamata “De Lombardo et Lumaca” dove un lombardo affronta ad armi spiegate un nemico, ai suoi occhi mostruoso ed imbattibile, che in realtà altro non era che una lumaca intenta a gironzolare nel suo verziere.
Forse il racconto era una semplice commedia goliardica, oppure una metafora della lotta tra i lombardi e Barbarossa, temuto al punto da essere ritenuto imbattibile ma poi sconfitto a Legnano, fatto stà che la fama della Lombardia, nel bene e nel male, era molta.
Sulle sponde del fiume Mincio, vicino all’antica via romana di Postumia, troviamo Goito, una località che grazie alla sua ottima posizione geografica divenne un gran crocevia di genti portatrici di commercio ed arte, linfa vitale per le corti mantovane e del nord Italia.
A Goito, in una piccola corte popolare chiamata “Corte Sereno” viveva un uomo impegnato come cavaliere di guardia presso il castello. Questo miles apparteneva alla povera nobiltà di campagna, aveva moglie e figli tra i quali uno di nome Sordello.
A Sordello un futuro di lavoro in campagna o, come il padre, a guardia del castello, non doveva apparire molto allettante e quindi, non appena ebbe l’età per poterlo fare, decise di partire per tracciare la sua strada vivendo di quella che era la sua passione: la musica.
Si diresse dunque nella zona dei colli Euganei, nel territorio della famiglia d’Este. A quel tempo il potente casato degli Este chiamava in Italia moltissimi poeti e giullari che abbandonavano la Provenza sia per ragioni personali, sia per la distruzione che la cultura cortese stava subendo nella sua terra natia a causa della tremenda crociata contro gli Albigesi. Questo raggruppamento di artisti contribuì alla composizione di quello che divenne il più grande centro d’Italia per la diffusione della cultura dell’amor cortese.
Lealtà, Amore, Liberalità e Cortesia verso le ambite dame erano le doti principali richieste a chi aspirava alla vita di corte, ed in questo fiorente contesto Sordello trovò il luogo in cui iniziare a comporre. Divenne dunque un giullare conducendo una vita sregolata tra vino, gioco d’azzardo e dubbie frequentazioni.
Sordel e la sua vidas nel canzoniere provenzale K

Aimeric de Peguilhan, il trovatore provenzale più noto ed “anziano” presente in quel periodo alla corte di Azzo VII d’Este, parla spesso di Sordello nelle sue composizioni, sempre in maniera comica e critica, come ad esempio in “Li fol e•il put e•il filol” dove traspare, oltre al disprezzo del trovatore nei confronti del crescente numero di giullari presenti intorno ai ricchi mecenati, la passione di Sordello per i soldi facili:



“I matti e i ruffiani e i compari
diventano troppi, e questo non mi piace;
e i vili giullaretti novelli,
importuni e maldicenti,
corrono un po’ troppo avanti;
e sono già, i mordaci,
per uno di noi due di loro;
e non c’è nessuno che dia loro una buona lezione!
Mi pesa che si accetti da loro tutto questo
e non si opponga loro nessuna resistenza;
e non dico questo contro il signor Sordello,
perché egli non sembra uno di loro
e non va certo in cerca di favori
come fanno i cavalieri dottori,
ma, quando gli manca chi gli presti denaro,
egli non può far cinquina e l’altro terno.”

Sempre grazie ad Aimeric abbiamo un’altra immagine della vita di Sordello riportata all’interno di questo scambio di coblas tra i due:

“Mai al tempo d’Artù o oggidì
credo si sia visto un colpo così bello
 come quello che Sordello
si prese sul ciuffo con un boccale;
 e se il colpo non fu mortale,
ne ebbe colpa quello che lo pettinò così;
ma lui è così umile e franco di cuore
che incassa tranquillo ogni colpo,
quando ha visto che non c’è sangue.”

Ma Sordello non tollera l’accusa di viltà, e risponde senza timore:

“Non credo che mai si sia vista
una persona avara
come quel vecchio accattone meschino
che è ser Amerigo dalla triste figura:
chi lo vede ha peggio che morte.
E per quanto abbia il corpo torto
e magro e secco e vizzo e sciancato e zoppo,
si vanta mille volte di cose che non ha mai fatto.”





Aimeric de Peguilhan a cavallo, dal canzoniere K
Testo originale:
I.
Anc al temps d’Artus ni d’ara
no crei qe hom vis
tan bel colp cum en las cris
pris Sordels d’un’engrestara;
e se·l colps non fo de mort,
sel qe·l penchenet n’ac tort;
mas el a·l cor tan umil e tan franc
q’el prend en patz toz colps pois no·i a sanc.
II.
Anc persona tan avara
no crei qe hom vis
cum a·l veils arlots meschis,
n’Aimerics ab trista cara.
Sel qe·l ve a pez de mort;
e se tot a son cors tort
e magr’e sec e vel e cop e ranc,
mil aitans dis… q’el no fes anc.

-

La vita di Sordello scorre tra corti e taverne, nobildonne e prostitute, nulla si fa mancare.
E’ ormai celebre il fatto che fosse un accanito giocatore e che spesso si giocasse tutto quello che guadagnava cantando; perse anche i suoi tre cavalli! Permettetemi di soffermarmi su questo dettaglio particolarmente interessante in quanto ci dimostra che, ad ogni modo, qualche buon guadagno egli lo aveva.
In questa strofa anonima, un giullare manigoldo risponde con il perdono ad alcune canzonature di Sordello, affermando che sarà il vizio del gioco a vendicare le offese subite una volta che Sordello avrà perso tutto al gioco:

“E tutte le offese che mi ha fatto quest’anno
volentieri le perdono a ser Sordello,
perché egli stesso farà la mia vendetta col gioco,
sicché non vale la pena che io lo uccida col coltello;
sapete bene che egli si è giocati entrambi i suoi palafreni
e il suo destriero tutti e tre:
se arriva a un fiume, e non c’è guado nè ponte,
si spoglia e mostra le sue rotondità.”

Dopo gli anni passati presso la corte d’Este, la poesia e la musica di Sordello iniziarono a circolare parecchio, quindi intorno al 1225, decise di spostarsi presso la corte dei San Bonifacio a Verona.
In molte sue composizioni Sordello ci racconta con ben poca modestia di come riuscisse ad avere un grande successo con dame e damigelle, fu proprio questo suo savoir faire a portargli grande fama ai suoi giorni, più di quanto non fece la sua poesia!
Nel 1226 i rapporti tra le due importanti famiglie dei San Bonifacio e dei Da Romano si interruppero a causa di lotte territoriali e la vita di Cunizza Da Romano, sorella di Ezzellino Da Romano, capo della famiglia, era a rischio in quanto anni prima Cunizza era andata in sposa a Rizzardo di San Bonifacio, capo della famiglia rivale alla cui corte si trovava Sordello.
Cunizza da Romano era una donna bellissima, focosa e molto ambita. Nel corso della sua vita amò innumerevoli volte ed ebbe tre o quattro mariti. Sordello se ne innamorò perdutamente e quando Ezzellino Da Romano gli chiese di rapirla per la sua sicurezza, lui non se lo fece ripetere due volte.

Sordello rapì Cunizza e la riportò dalla sua famiglia, poi tra i due nacque un amore passionale.

Il clamore e lo scandalo suscitato da questo fatto fu immenso! Sordello fuggì presso varie corti di amici dei Da Romano, ma anche quando il fuoco dello scandalo non si era ancora del tutto spento, il nostro “vassallo di Amore” diede modo di far parlare ancora sè innamorandosi e sposando segretamente e senza nessun permesso Otta di Strasso, figlia di Enrico di Strasso, grande amico dei Da Romano.
Sordello si stava rendendo conto che la sua fama di musicista ed amatore stava crescendo sempre di più e questo lo metteva a serio rischio dato che in molti ora lo riconoscevano ed altrettanti cercavano vendetta per le sue azioni.
Intorno al 1229 Sordello decide saggiamente di lasciare l’Italia e, inseguito dalla sua fama di musicista, poeta e “ingannatore di donne”, si sposta in Provenza lasciando alle sue spalle pettegolezzi e dicerie, ma anche un briciolo di stima da parte dei suoi colleghi come si evince da questa canzone di Uc de Saint-Circ, trovatore provenzale stabilitosi a Treviso e divenuto poeta di corte proprio dei Da Romano, ex signori di Sordello.
In questa canzone Uc canta della fuga di Sordello, chiamato “Vita Mia”:

Huc de Saint Circ dal canzoniere K
“Una danzetta voglio comporre,
scherzando e ridendo,
intorno a Vita Mia, a cui Dio conservi
il bell’intelletto,
con la quale mi rallegrerò il cuore dolente.

(Ritornello)
Con dolce canto,
danzando,
voglio che per conforto se ne vada
tentando
e seducendo
e ingannando le donne.
Il suo bell’ingegno gli consiglia di cambiare
spesso domicilio,
sicché è venuto a stabilirsi qui,
e va cercando
un’altra da poter ingannare,
e che sia ricca !
(Ritornello)
O terra di Mantova e di Verona,
io l’ho perduto (come voi),
e Treviso e il Cenedese
so che lo stesso han fatto,
e se anche il Vicentino lo perde,
dove lo accompagnerò ?
(Ritornello)
In Alvernia, nel Forez
e nel Velay,
dove non sanno chi è
né i tiri che combina;
poi me lo tiro dietro nel Viennese,
ad Annonay.”

Testo originale:

Una danseta voil far
Jogan risen
De Ma Vida, cui Deus gar
Son gentil sen,
A qe-il farai alegrar
Son cor dolen.

(rit.)
Ab dous chan
En dansan
Voil que s'anes conortan,
Baratan
E trichan
La domnas e galian.

Sos bons sens li fai canjar
Alberg soven,
Car es venguz sai estar
E vai qeren
Autra que puesc' enganar
C'aia argen.
(rit.)
Mantoana e Verones,
Perdut l'ai,
E Trevis' e Senedes
Atresi sai,
E se-l perc Visentines
O-l menerai
(rit.)
En Alvergne et en Fores
Et en Veslai,
Lai on no sabon qi s'es
Ni-ls trag q'el trai!
Pueis me trai l'en Vianes,
A Anonai.
(rit.)


-

Giunto in Provenza, Sordello si sposta di corte in corte facendo tappa anche da Savaric de Mauléon, importante signore provenzale protettore dei trovatori e trovatore egli stesso. Finalmente nel 1233 raggiunge la corte del grande Raimondo Berengario IV, importantissimo signore e trovatore provenzale. Qui, finalmente, la sua musica e la sua poesia gli valgono la nomina di cavaliere e gli vengono donati alcuni feudi.
Anche se formalmente soggiornava alla corte di Provenza, Sordello non aveva certo smesso di visitare città e servire finemente il suo padrone Amore. Conobbe una donna di nome Guida di Rodez, moglie del barone di Montlaur nel Vivarais, ed a lei dedicò molte sue composizioni, a volte chiamandola con i senhals di “N’Agradiva” o di “Restaur” (“Ristoro”) , altre volte celando il suo vero nome nel testo, come in “Aitant ses plus viu hom quan viu jauzens” della quale vi riporto la seconda e la terza strofa come esempio, evidenziandone il nome ogni volta che viene utilizzato:

Tanto penso a lei, e tanto l’amo di cuore,
che temo che notte e giorno non mi bastino a pensarla,
poiché non ha pari in bellezza e virtù.
Per questo debbono cedere a lei
le donne più pregiate, poiché essa è GUIDA
nel GUIDAre, gentile e perfetta,
le valenti in pregio, come le navi in mare GUIDAno
la stella polare e l’ago calamitato.
E poiché la ferma stella lucente
GUIDA le navi che vanno perigliose per il mare,
ben dovrebbe colei, che le somiglia, GUIDAre me,
che per lei sono nel mare così profondamente
sperduto, abbattuto e turbato,
che vi morirò e perirò prima che io ne esca,
se lei non mi soccorre, poiché non trovo, per uscire,
né riva né porto, guado né ponte né ricovero.

Testo originale:
“Aitant ses plus viu hom quan viu jauzens
c’autre viure no·s deu vid’apellar;
per qu’ieu m’esfors de viur’e de reinhar
ab joi, per leys plus coratjozamens
servir q’ieu am, quar hom que viu marritz
non pot de cor far bos faitz ni grazitz;
doncx er merces si·m fai la plus grazida
viure jauzens, pus als no·m ten a vida.

Tant pes en lieys e tan l’am coralmens
que nueyt e jorn tem mi falh’al pensar,
quar de beutat ni de pretz non a par,
per que·l devon esser obediens
las plus prezans; quar enaissi es guitz
per dreg guidar, sos gens cors ben aibitz,
las pros en pretz, cum las naus en mar guida
la tramontana e·l fers e·lh caramida.

E puys guida·l ferm’estela luzens
la naus que van perillan per la mar,
be degra mi cil, qi·l sembla, guidar,

qu’en la mar suy per lieys profondamens
tant esvaratz destreitz et esbaitz,
qe·i serai mortz ans que·n hiesc’e peritz,
si no·m socor, quar non truep a l’yssida
riba ni port, gua ni pont, ni guerida.

Dura merces e trop loncx chauzimens
me fan murir per sobre dezirar,
quar ieu no puesc ses lo joy vius durar

qu’ie·l quier sirven aman ab tals turmens
que·l jorn mil vez volri’esser fenitz,
tan mi destreing lo dartz don sui feritz
al cor d’Amor, per qe·l mortz m’es ayzida
car il no·n es tot eissamen ferida.

Las! don li ven de mi aucir talens
pos q’ill no·m pot en nulh forfach trobar,
e ja per mal que·m sapcha dir ni far,

non puosc esser de lleis amar partens?
Doncx, e que·lh val si·m fai mal ni·l me ditz?
C’aissi·l sui ferms autreiatz e plevitz;
qu’enans sera m’arma del cors partida,
qu’ieu m’en parta, tan l’am d’amor complida.

N’Agradiva, dompna de pretz razitz,
de cor, de sors e de faitz e de ditz
suy vostres totz, quar etz la mielhs aybida
neta e plazens, suaus et yssernida.

Per Dieu, aiatz merce, dompna grazida,
de me, qu’en vos es ma mortz e ma vida.”

-

Non pensate però Guida fosse l’unica protagonista delle composizioni di Sordello! Oltre ad altre donne, nelle sue poesie si trovano temi politici e tenzoni con altri trovatori come i celebri scambi di strofe con Ricas Novas, altro trovatore alla corte di Raimondo Berengario. Ricas Novas sosteneva di aver subito un grave torto da parte del suo signore ed accusava Sordello e gli altri trovatori di non essere intervenuti per paura di perdere il favore di Raimondo. Ricas Novas inoltre soffriva di una grande invidia nei confronti di Sordello a causa della sua bravura e della facilità con la quale riuscì ad elevarsi a corte nonostante le umili origini, per queste ragioni spesso spendeva male parole nei suoi confronti tanto che Sordello scrisse un sirventese contro di lui, ma senza inserire il suo nome nella composizione. Scrive Sordello di Ricas Novas:

“Colui che lo conosce lo tiene in conto di menzognero,
fiacco e vile, spregevole e millantatore.
Egli infatti con il suo rozzo aspetto, falsamente grazioso e dolce,
si atteggia a uomo cortese, e non vale un denaro,
perché le parole sono grandi e le azioni sono dappoco,
cosiccé tra i prodi non è stimato un chiodo.”

Ricas Novas nel canzoniere K

La fama di Sordello era ormai sì tanta che il suo passato turbolento non tardò a ritrovarlo, nelle rime di Ricas Novas in risposta a Sordello, troviamo il termine che più faceva incollerire e soffrire il nostro musicista: “giullare in armi”. Ricas Novas lo accusava di non essere altro che un povero giullare travestito da cavaliere alla disperata ricerca di elemosine ed omaggi.
La risposta non tardò ad arrivare, tremenda e lapidaria:

“Ha davvero gran torto a chiamarmi giullare,
perché lui va dietro gli altri, mentre gli altri vengono a me,
e io dono senza prendere, mentre egli prende senza donare,
poiché si mette addosso tutto quello che riceve per pietà;
io invece non prendo nessuna cosa da cui mi possa venire disonore,
anzi spendo le mie rendite e non voglio altra ricompensa
se non d’amore: mi pare, dunque, che egli si abbassi
ed io m’innalzi, se ci giudicano secondo giustizia.”


Il tempo così passava nelle corti di Provenza e nel 1245 purtroppo Raimondo Berengario morì, lasciando tutta la sua eredità alla figlia Beatrice che andò in sposa a Carlo I d’Angiò, allora ventenne.
Sordello scrisse subito al suo nuovo signore un sirventese in cui consigliava al giovane sovrano di abbandonare la vita mondana alla quale era abituato per dedicarsi a nobili imprese, gli diede un consiglio insomma, che se ascoltato avrebbe portato vantaggi ad entrambi; al primo in fatto di onore, al nostro Sordello in fatto di guadagno:

“In un barone che a vent’anni non comincia
a compiere nobili imprese, e che pensa soltanto ai divertimenti,
nessuno deve riporre [qualche] speranza, dovesse vivere cent’anni;
poiché le imprese migliori si accordano con la gioventù.
Per questo prego il mio signore che tosto
incominci a compiere nobili imprese, se vuole acquistare pregio;
infatti se da giovane non acquista un alto pregio,
difficilmente questo sarà da lui acquistato durante la sua vita.”

Le imprese non mancarono perchè l’ambizioso principe angioino partecipò a molte battaglie oltre che alla settima crociata promossa da suo fratello, Luigi IX re di Francia.
Anche a Sordello venne proposto di seguire il suo signore in guerra ma, in pieno stile “Lombartz”, egli rifiutò asserendo di aver paura del mare ma componendo per lui un lai chiamato “Al comte mon segnor voill pregar” (“Voglio inviare una preghiera là, al conte mio signore”) nel quale lo invitava a prendere con sé l’amico Bertran d’Alamanon al suo posto, in quanto ritenuto scherzosamente eccellente marinaio:

“Ancora non sono tanto esperto del mare,
benché in esso sia stato ben istruito, da poter
passare oltremare, qualunque sforzo io facessi;
perciò voglio pregare il conte che non gli rincresca
se non passo con lui; infatti io non debbo essere biasimato,
perché temo tanto fortemente il mare, quando è cattivo il tempo,
che non posso andare oltremare per nessun motivo (così io penso),
e il conte non deve punto volere che io muoia.
Ma se [il conte] vuole con sé un marinaio ben esperto
del mare, conduca messer Bertrando d’Alamanon, se gli piace,
poiché io so che [ciò] gli è gradito,
ed egli sa tanto bene quali sono i venti migliori,
che in un giorno va e se ne torna facilmente;
e il conte lasci me, che non ho né possibilità né voglia
di passare il mare per tutta la mia vita,
tanto la morte mi fa paura e spavento.”

Gli anni passavano veloci e Carlo d’Angiò nel 1259 divenne conte di Ventimiglia e signore di Cuneo. Nel 1265 venivano stipulate importanti alleanze con Milano, Lodi, Bergamo, Como e Novara, preludio della ormai prossima spedizione in Italia promossa da papa Urbano IV a scapito degli svevi.  Questa volta Sordello seguì il suo signore, ovviamente non per mare ma per terra, insieme alla maggior parte dell’esercito, mentre Carlo preferì imbarcarsi.
Sordello era di nuovo in Italia dopo 35 anni d’assenza!
Diversa l’Italia che ritrovava il nostro Sordello, che forse invece non era cambiato poi molto dato che solo nel 1266 lo troviamo registrato come prigioniero nel carcere di Novara per ragioni che purtroppo non conosciamo.
Ma ora Sordello, grazie alla sua musica, poteva vantare grandi onori ed amicizie e per la sua liberazione si mosse persino il nuovo papa Clemente IV, che rimproverò addirittura Carlo d’Angiò per il modo in cui aveva trattato un sì fedele seguace. Carlo d’Angiò in tutta risposta decise di farsi perdonare offrendo al suo “fedele cavaliere” il feudo di La Morra, vicino Cuneo e, dopo la conquista del regno di Napoli, i castelli abruzzesi di Monte Odorisio, Monte San Silvestro, Paglieta, Pila, e casale di Castiglione.
Siamo ormai nel 1269 e Sordello forse non ha più la forza per servire Amore, ma per lamentarsi dell’avarizia del suo signore si!
Purtroppo in quell’anno, nel regno di Napoli Sordello morì e le sue incredibili vicende giungono al termine. Di lui ci rimangono 42 opere tra le quali canzoni, tenzoni e partimen (dibattiti “poetici”), sirventesi politici, morali e personali, un planh (pianto o lamento funebre), liriche e scambi di coblas con vari trovatori tra i quali Aimeric de Peguilhan e Carlo d’Angiò, un salutz ed infine il poemetto “Ensenhamens d’onor”.
Nonostante alcune di queste opere siano giunte a noi incomplete a causa dell’incuria e del passare del tempo, la cosa che più si lamenta è la perdita degli spartiti musicali che accompagnavano i testi di poesia. Sordello infatti, a differenza di molti altri poeti dell’epoca, viene ricordato nella sua vidas come buon musico e buon cantore, che non aveva bisogno di musicisti per accompagnarsi e questo rende la perdita delle partiture ancora più gravosa.

La musica che vi propongo dunque ha qualche limite, ma a mio giudizio non molti di più rispetto al resto della musica medievale che, seppur arrivando a noi con notazione, subisce sempre un minimo reinterpretazione in quanto le notazioni musicali del medioevo non includevano pause o intervalli ritmici.
E’ assurdo pensare che con tanto materiale solo una poesia di Sordello sia stata musicata: “Ai las, e que⋅m fau miey huelh” che io vi presento in due versioni: la prima della Camerata Mediterranea che ha utilizzato un brano anonimo dello stesso periodo di Sordello, accostamento storicamente riuscito e dal risultato grazioso; la seconda invece è stata eseguita dal grande musicista e ricercatore Gérard Zuchetto che, cantando sopra una sua composizione musicale, riesce ad avvicinarsi, a mio giudizio, a quello che sarebbe potuto essere lo stile esecutivo trobadorico; libero da ogni forma di gusto e costrizione musicale moderna.
La sua interpretazione è così magica, ancestrale, sincera in ogni nota, vocalizzo e percussione da riuscire davvero ad alleviare il dolore della perdita delle musiche originali.


“Ahi! A che mi serve questi occhi avere?
se ciò che voglio non posson vedere?



Or che l’estate rinnova il suo manto

e ha nuove foglie la natura in fiore,
la bella ch’io vorrei avere accanto
mi chiede un canto ma non di dolore.
Per lei, che è una donna proprio d’ incanto
canterò, sebbene muoia d’amore,
ché l’amo, senza dubbio, proprio tanto,
poco la vedo e sempre l’ho nel cuore.
Ahi! A che mi serve questi occhi avere
se ciò che voglio non posson vedere?

Sebben l’amore mi uccida e tormenta,
io non mi voglio ancora lamentare:
per donna assai gentil mia vita è spenta,
male per bene io posso scambiare.
Almeno le piacesse e mi consenta
di sperar ch’ella voglia me graziare;
per quanto sia il dolore che io senta
mai non udrà da me pianto versare.
Ahi! A che mi serve questi occhi avere
se ciò che voglio non posson vedere?

Son morto se il suo amor non mi concede
perché vedere non posso, né pensare
dove andare o girare o prender sede
se lontano da me ella vuol’andare;
Non voglio ad altra chiedere mercede
e lei non la posso dimenticare
Anzi, qualsiasi cosa mi succede,
l'amore sempre più me la fa amare
Ahi! A che mi serve questi occhi avere
se ciò che voglio non posson vedere?

Cantando io supplico il mio dolce amore,
se vuol, di non commettere peccato:
causando la mia morte per errore,
si pentirà d’avermi ammazzato.
Meglio però che mi si fermi il cuore
piuttosto che campare sconsolato,
perché patisce assai più di chi muore
chi poco vede la sola che ha amato.
Ahi! A che mi serve questi occhi avere?
se ciò che voglio non posson vedere?”

Testo originale:
“Ai las, e que⋅m fau miey huelh
quar no vezon so qu'ieu vuelh?

Er, quan renovella e gensa
estius ab fuelh'et ab flor,
pus mi fai precx, ni l'agensa
qu'ieu chant e⋅m lais de dolor,
silh qu'es domna de plazensa,
chantarai, sitot d'amor
muer, quar l'am tant ses falhensa,

e pauc vey lieys qu'ieu azor.

Ai las, e que⋅m fau miey huelh,

quar no vezon so qu'ieu vuelh?

Sitot amors mi turmenta
ni m'auci, non o plane re,
qu'almens muer per la pus genta,
per qu'ieu prenc lo mal pel be.
Ab que⋅l plassa e⋅m cossenta
qu'ieu de lieys esper merce,
ja per nulh maltrag qu'ieu senta,
non auzira clam de me.

Ai las, e que⋅m fau miey huelh,
quar no vezon so qu'ieu vuelh ?

Mortz sui si s'amors no⋅m deynha,
qu'ieu no vey ni⋅m puesc penssar

vas on m'an ni⋅m vir ni⋅m tenha,
s'ilha⋅m vol de si lunhar;
qu'autra no⋅m plai que⋅m retenha,
ni lieys no⋅m puesc oblidar;
ans ades, quon que m'en prenha,
la⋅m fai mielhs amors amar.

Ai las, e que⋅m fau miey huelh,
quar no vezon so qu'ieu vuelh?

Chantan prec ma douss'amia,
si⋅l plai, no m'auci'a tort,
que, s'ilh sap que pechatz sia,
pentra s'en quan m'aura mort;
empero morir volria
mais que viure ses conort,
quar pietz trai que si moria
qui pauc ve so qu'ama fort.

Ai las, e que⋅m fau miey huelh,
quar no vezon so qu'ieu vuelh?

Manoscritti contenenti le vidas ed alcune composizioni di Sordel:

Molto interessanti, complete e curate sono le pagine dedicate a Sordello da parte del sito del comune di Goito, consiglio vivamente di consultarle: Goito online

Sordello, il più famoso dei trovatori italiani






Tutti i diritti riservati ai musicisti dei vari ensemble, il video ha il solo scopo di diffondere la bellezza della musica del medioevo. 

Er, quan renovella e gensa - Camerata Mediterranea
Ai las, e que⋅m fau miey huelh - Gérard Zuchetto - Troubadours Ensemble

•••